Il counseling in una società in cambiamento
Vedere nel “paziente” una persona alla ricerca di un nuovo equilibrio
di Silvana Quadrino
da FORWARD Aprile 2021
Parole e cura
Come scrive Fabrizio Benedetti[1], in risposta alla sofferenza delle persone sono nate prima le parole e poi i farmaci. Questo vale anche per le sofferenze dell’anima. Parole. Delle mamme, e poi di “addetti” alla cura: sciamani, saggi, preti e pastori.
A metà dell’800 a quell’intervento tradizionale di ascolto e affiancamento svolto dal medico condotto, dal parroco, dell’anziano del villaggio, basato sulla conoscenza delle storie famigliari e delle risorse della comunità, si affianca un nuovo intervento, ricalcato sul modello medico, che ricerca nel modo di “funzionare” del soggetto le cause del disagio e mira a diagnosticare e a riparare. È la strada che porta al diffondersi dell’intervento psicologico/psicoterapeutico come risposta privilegiata ai problemi delle persone.
Nella seconda metà del secolo scorso quella risposta diventa prevalente, e respinge nell’ambito della “non scientificità” ogni altro intervento.
Cambiamenti
Succedono altre cose, in quegli anni euforici dei progressi della scienza e della medicina. Paradossalmente, la sofferenza sembra diventare più presente nella vita delle persone. La tolleranza ai sintomi fisici diminuisce, accompagnata dalla convinzione che la medicina debba trovare una cura a ogni male. E aumentano le situazioni di disagio legate alla difficoltà nel fare fronte a una realtà sempre più complessa, a mutamenti sociali ed economici improvvisi, a richieste nuove e inattese del mondo del lavoro o nelle relazioni fra generi e fra generazioni.
Spesso questi disagi vengono giungono allo studio del medico, sotto forma di sintomi aspecifici che deludono la speranza in soluzioni magiche e immediate: il medico si trova disarmato di fronte a inquietudini, sbalzi di umore, irritabilità che si trasformano in insonnia, emicrania, sintomi vari, ma… l’organo da curare non c’è, e allora bisogna parlare di stress, o di sintomi psicosomatici.
Sono questi i pazienti che dagli anni ’70 in poi sono stati inviati da psicologi, psicoterapeuti, terapeuti della famiglia. Ma era sempre la risposta migliore?
Fra delega e riappropriazione della globalità della cura
Osservando la geografia degli interventi di cura in quegli anni molti coglievano un vuoto fra la richiesta di aiuto espressa da persone che potremmo definire in “normale” difficoltà esistenziale e l’invio allo psicologo.
Cosa mancava? Cos’altro poteva fare un medico per rispondere a una richiesta di cura che non riguardava il corpo del paziente ma la persona e il suo ambiente di vita? E cosa poteva fare il professionista sociale quando alla difficoltà di una persona o di una famiglia non poteva dare una risposta concreta e risolutiva?
Ogni individuo possieda le risorse necessarie per far fronte alle difficoltà che incontra.
Esplorando altre realtà e altre esperienze compariva un termine ancora in gran parte ignoto in Italia: counseling. Ben radicato nei paesi di cultura anglosassone, si presentava con una paternità di tutto rispetto: Carl Rogers[2], psicologo statunitense, aveva coniato quel termine negli anni ‘50 per definire il suo modello di intervento “centrato sulla persona”, caratterizzato dalla convinzione che ogni individuo possieda le risorse necessarie per far fronte alle difficoltà che incontra, e che l’intervento del professionista debba essere finalizzato alla valorizzazione di quelle risorse con un intervento breve e centrato sul presente e sulla specificità della situazione che il paziente incontra.
Trasportato nella realtà di ogni intervento di cura, l’approccio del counseling dimostrava di essere la competenza che mancava per restituire ai professionisti della cura l’interezza della loro relazione di aiuto.
Saper affiancare le persone nei “normali” momenti di cambiamento che la vita richiede diventa, oggi più che mai, una competenza indispensabile per tutti i professionisti.
Counseling e competenze di counseling
Il counseling inteso come intervento più vicino a quella che Duccio Demetrio definisce “educazione in età adulta”[3] piuttosto che a un intervento specificamente psicologico[4], può essere visto come intervento a se stante o come “modo” di ogni intervento di cura: una competenza che ogni professionista può acquisire con una formazione adeguata, che gli permette di vedere nel “paziente” una persona alla ricerca di un nuovo equilibrio, reso necessario da un cambiamento inevitabile come la malattia o un evento inatteso, e di utilizzare con attenzione la narrazione, l’ascolto, l’esplorazione dei sistemi di riferimento del paziente per facilitare la ricostruzione di nuovi equilibri. Saper affiancare le persone nei “normali” momenti di cambiamento che la vita richiede diventa, oggi più che mai, una competenza indispensabile per tutti i professionisti.
Bibliografia
[1] Benedetti F. La speranza è un farmaco. Milano: Mondadori, 2018.
[2] Rogers CR. Counseling and psychotherapy, Boston: Hougthon and Miffling, 1942. Traduzione italiana: Rogers CR. Psicoterapia di consultazione. Roma: Astrolabio, 1971.
[3] Circostanze e interventi che “inducono le persone adulte a rivedere il proprio ruolo, la propria posizione nel mondo, i propri compiti, rispetto a sé stessi, agli altri, ai contesti di appartenenza”. Demetrio D. L’età adulta. Teorie dell’identità e pedagogie dello sviluppo. Roma: Carocci, 2003.
[4] Quadrino S. Il counseling, l’intervento che non cura. Psicologia di Comunità 2015; 1: 11-20.
Fotografia di Lorenzo De Simone
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